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L’altra faccia della ‘disruption': startup, neoliberismo e sistema sanitario

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Scritto per La Stampa – Dopo aver investito miliardi di dollari, negli anni scorsi, per scardinare i monopoli esistenti nel settore musicale e in quello editoriale, per rendere popolare il commercio elettronico e, più di recente, trasformare l’industria dell’automotive e dei trasporti in generale, i grandi capitalisti di ventura della Silicon Valley sono ben decisi a entrare di prepotenza nel mercato delle assicurazioni e in quello della fornitura di cure mediche.

Se non l’hanno ancora fatto in massa, fino ad oggi, è per un motivo preciso: si tratta di mercati altamente regolati, con una serie di paletti fissati per tutelare gli utenti. Prima di entrare in commercio, un farmaco deve essere approvato dalla Food and Drugs Administration, negli Usa, e da agenzie simili in altri Paesi. Questo significa allungare i tempi, e spendere più soldi in ricerca (e attività lobbying), per essere sicuri di ottenere l’approvazione.

Ma agli startupper e VC, lo sappiamo, lacci e lacciuoli non piacciono: l’idea è quella di ” move fast and break things“, muoversi in fretta e scardinare le cose secondo la vulgata Zuckerberg, e di seguire fedelmente altre massime di vita da manuale motivazionale come il celebre ” If you are not embarrassed by the first version of your product, you’ve launched too late” declamato dal fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman.

Per cui stanno provando a inserirsi lo stesso, a modo loro, nel campo delle cure mediche. I risultati non sono stati, fino a questo momento, esattamente incoraggianti. Uno dei casi che ha fatto più scalpore, di recente, è stato quello di Theranos, un’azienda che sosteneva (anzi, sostiene tutt’ora) di aver inventato un modo per fare gli esami del sangue, controllando circa 200 parametri, senza prelevare dalla vena, ma attraverso una semplice punturina sul dito.

Affermazione peraltro unilaterale, nel senso che l’efficacia del prodotto, non era stata verificata da terze parti.

Nonostante ciò, l’azienda aveva raccolto più di 400 milioni di dollari di investimenti, e raggiunto una valutazione di 9 miliardi di dollari. Fino a che un’inchiesta del Wall Street Journal non ha confutato gran parte delle dichiarazioni promozionali di Theranos. Altre smentite sono seguite, in una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri.

Un altro caso poco chiaro, è quello di Pathway Genomics. Nel settembre scorso, l’azienda californiana ha lanciato sul mercato un altro kit per il test del sangue che, sosteneva, era in grado di identificare le mutazioni dovute a cellule cancerogene. E aveva incassato il sostegno di investitori come Edelson Technology Partners, Founders Fund, IBM Watson Group. Il punto è: nessuno era in grado di provare che il test facesse davvero quello che la compagnia affermava, ragion per cui la FDA, vista anche la delicatezza del tema, si è vista costretta a inviare alla società, che non aveva ottenuto nessun tipo di approvazione, una richiesta urgente di incontro,

Sono solo un paio di esempi di situazioni in cui l’approccio ” disruptive” della Silicon Valley rischia di essere inadeguato. L’idea di lanciare un prodotto prima ancora che sia pronto, e poi correggerlo strada facendo così caro ai teorici della Lean Startup, la startup “agile”, rischia di fare in questo caso delle vittime, in senso letterale.

D’altra parte, è anche vero che l’ingente quantità di risorse finanziarie, e di soluzioni tecnologiche investita nel settore da parte di alcuni dei maggiori investitori privati mondiali, potrebbe portare a escogitare terapie innovative per patologie ad oggi incurabili. Si tratta, essenzialmente, di praticare l’arte del senso della misura. Mantenendo ben saldi alcuni punti fermi; come quello che la tutela dei pazienti deve avere la precedenza sempre e comunque sull’esigenza di un ritorno finanziario a breve-medio termine, aspettativa perfettamente legittima e praticabile in altri campi di attività delle startup.

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