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Che senso ha il “patriottismo” legato all’innovazione?

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Girando per l’Europa, è da un po’che mi interrogo sulla strana accoppiata “orgoglio di bandiera + innovazione” che si registra in alcune nazioni. Il fenomeno è particolarmente evidente in Francia e in Italia.

Nella prima “la French tech“, il movimento che racchiude gli attori principali dell’ecosistema francese, si promuove al grido di “Tous unis pour la croissance de nos startups”. In generale, i francesi adottano un approccio molto compatto, con una forte presenza dello stesso governo, come dimostra la presenza del ministro Emmanuel Macron all’ultimo CES.

Del nostro paese non occorre dire: fra eventi, associazioni, siti e pubblicazioni, non si contano le occasioni in cui termini come “Italia”, “innovazione” e startup sono declinati assieme, con l’evidente scopo di rafforzarsi l’uno con l’altro. Qualcosa di simile avviene in Portogallo e in misura minore, in Spagna.

In altre parti del Vecchio Continente, l’approccio è più blando e forse più pragmatico. Sono le grandi città, come Londra o Berlino, al limite a promuovere se stesse, nella grande competizione per attirare i talenti che secondo alcuni farà davvero la differenza per la crescita del tenore di vita, nell’epoca dell'”economia della conoscenza”.

Ma in generale, è difficile leggere sui giornali stranieri titoli come “imprenditore inglese re-inventa il car-sharing” o “l’impresa tedesca che compete alla pari con la Silicon Valley”; succede, ma non così spesso come accade qui dove l’aggettivo “italiano” diventa l’elemento qualificante, a volte in effetti l’unico, di una certa idea innovativa.

Come mai?

Una prima risposta è che possa trattarsi di un segno di debolezza. Le nazioni davvero forti in ambito startup, come UK e Germania, non hanno davvero bisogno di rafforzare il proprio senso di autostima associandosi a qualche impresa tecnologica.

C’è la parziale eccezione della Francia, che però ha sempre avuto un fortissimo senso di identità nazionale e in cui sembra di cogliere a volte una punta di revanscismo, come accaduto per esempio, quando Macron a Las Vegas ha ricordato che la parola “entrepreneur” è in realtà una parola francese, “rubata” dagli anglosassoni e di cui gli imprenditori francesi avrebbero dovuto riappropriarsi.

Accanto alla debolezza, c’è il provincialismo. Il vero imprenditore innovativo deve partire oggi già guardando a un’ottica internazionale. Specie se il mercato di origine non ha, come quello italiano, di per sé una dimensione sufficiente per consentirgli di sopravvivere contando solo su di esso (ci sono comunque delle eccezioni).

La maggior parte dei team che si incontrano nelle competizioni internazionali sono composti da persone di vari paesi, che collaborano ‘around the clock’ grazie a Skype, Slack ed altri mezzi. L’idea della “purezza di sangue” è del tutto fuori luogo in ambito innovativo. Conta, o dovrebbe contare, solo collaborare coi migliori.

Un’altra spiegazione possibile, anche se un po’ terra-terra e forse ingenerosa, è che molti italiani, anche giovani, non parlano molto bene inglese. Puntare molto sull'”italianità“, sullo stare insieme, potrebbe essere un modo di ovviare a una difficoltà di comunicazione diffusa.

Ovviamente, tutto ciò non significa che l’innovazione non possa essere un modo per rilanciare l’immagine del nostro paese, o che ci si debba vergognare di essere italiani (anzi!), o che stare uniti non possa essere utile, perché in certi casi l’unione può “fare”, davvero, la forza. Basti pensare a come gli irlandesi sfruttano i legami che hanno con gli emigrati di Oltreoceano.

Soltanto, non scordare che, in un mondo globalizzato, la certificazione di identità nazionale è solo uno degli elementi su cui puntare. Di certo non può essere il solo, né il più importante.

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