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Il doppio volto del ‘public shaming': gogna mediatica o arma degli indifesi?

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Una delle connotazioni del nostro tempo rese possibili dalla tecnologia, oltre all’ossessione per la misurazione, è l’ossessione per la trasparenza. Che può avere varie declinazioni: dall’idea, positiva, che tutti debbano avere accesso ai dati prodotti dalla pubblica amministrazione (open data e diritto di accesso), a quella meno limpida della pretesa di negazione della privacy in nome della sicurezza e dell'”interesse nazionale” (vedi scandali Nsa e dintorni) per arrivare a quella che si può a ben diritto configurare come una “perversione” della trasparenza: il bisogno di mettere in piazza i fatti e gli errori altrui, scegliendo appositamente quelli in gradi di nuocere, in una sorta di processo mediatico al malcapitato.

È il “public shaming”, una trappola in cui di solito ci si infila da soli, a causa di un comportamento, un tweet, un post su Facebook, poco felice, oltraggioso, o a volte semplicemente stupido. Lo sa bene Justine Sacco, l’esperta di pubbliche relazioni scivolata un paio di anni fa sulla buccia di banana di un tweet idiota e dal sapore vagamente razzista, un errore che gli è costato il lavoro, sconvolto la vita e da cui, solo di recente è faticosamente riuscita a riprendersi.

A lei, e ad altri come lei la cui vita è stata rovinata dal processo online seguito a uno sbaglio, a un gesto poco “politicamente corretto”, il New York Times ha dedicato un articolo tutto da leggere: “How One Stupid Tweet Blew Up Justine Sacco’s Life“.

Colpisce, leggendo il pezzo, la sproporzione che spesso si nota fra la presunta colpa, e la pena inflitta dalla comunità di giustizieri online, e l’accanimento con cui questi ultimi continuano a infierire su persone che in poco tempo hanno perso tutto. Nessuna pietà, nessun dubbio, nessun sospendere la sentenza e ascoltare le giustificazioni altrui. Con alcuni giornalisti ad attizzare il fuoco, per un pugno di clic in più.

Viene davvero la voglia di spegnere,  di chiudere tutti gli account e stoppare le condivisioni, per non imbattersi in questi tribunali del popolo, pronti a cogliere il minimo errore e totalmente acritici verso loro stessi. Esiste però anche un’altra versione della storia, e ce la racconta un bel pezzo di Nita Bhalla sul sito della Fondazione Thomson Reuters “Indian women fight sex pests with smartphones and Internet“.

Per alcune donne indiane, il “public shaming”, il mettere alla gogna online gli uomini che mettono le mani addosso quando non dovrebbero, è diventato in certi casi un modo per difendersi da questo tipo odioso di molestie sessuali. Un argomento particolarmente caldo, in una nazione dove purtroppo si registrano tantissimi casi di violenze e stupri.

Il caso più eclatante di questa tecnica di difesa, è  un video girato a bordo di un volo di linea da una ragazza infastidita dal passeggero del sedile posteriore, e che ha avuto più di 7 milioni di visualizzazioni su YouTube, al momento in cui scrivo. L’uomo, molto più anziano, che pensava di passarla liscia, contando sulla posizione di preminenza del maschio nella società indiana e nell’assenza di reazione della maggioranza silenziosa, è umiliato, schiacciato, intimidito dall’obiettivo della videocamera del cellulare, tanto da far quasi pena.

Volendo essere garantisti al massimo, va detto che manca, in questo caso, la “pistola fumante”: non esiste una ripresa che documenti il reato in sé, dunque abbiamo solo la versione della ragazza per sostenere le accuse. Ma d’altra parte, va anche detto che l’uomo non nega mai l’accaduto, anzi chiede più volte perdono, di fatto ammettendo la colpa.

Qualche perplessità sull’utilizzo del public shaming, confesso che mi rimane anche in tal caso: l’idea che non si finisca mai di pagare la propria colpa, che dovunque costui andrà in India, è ora possibile che qualcuno lo riconosca e gli faccia pesare quello che ha fatto, sembra tagliare fuori qualsiasi possibilità di perdono e pentimento da parte del reo. Ma perlomeno, in questo caso, la gogna viene messa a buon fine, e ha ad oggetto un comportamento reale, odioso e da sopprimere, e non una semplice frase infelice, detta magari in un momento di stress.

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Un pensiero su “Il doppio volto del ‘public shaming': gogna mediatica o arma degli indifesi?

  1. Proprio oggi riflettevo sul fatto che i social si sono riempiti di messe alla berlina e appelli alla vergogna. Lo sento sulla mia pelle che ormai le acclamazioni alla pubblica gogna hanno esaurito la mia sopportazione. Possibile mai che un popolo non trovi altri strumenti per manifestare la propria disapprovazione? E se tutti accusano tutto con lo stesso clamore, quale sarà la discriminante di gravità che separerà le vere nefandezze da quelle più “innocenti”?
    L’overload strillato delle denunce, tra l’altro, non fa altro che peggiorare il nostro stato d’incuranza. Chi si indigna più? E allora, dove si trova il vantaggio?

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