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Gli umanisti espropriati e le Smart City

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Di tanto in tanto, fra un tweet di Gasparri e l’altro,  ci sono cose che vale davvero la pena leggere.  Fra esse c’è senz’altro un articolo di Leon Wieseltier uscito da poco sulla Sunday Book Review del New York Times, “Among the Disrupted“.

Wieseltier, che è redattore del sito The Atlantic, comincia facendo un’elegia dei “perdenti” della rivoluzione tecnologica in corso, dai piccoli negozi di dischi alle librerie, ma poi l’articolo va molto oltre.

Si trasforma in una riflessione sullo scontro fra due modelli di civiltà, fra due atteggiamenti verso la vita. Quello attuale, dei neo-positivisti o post-umanisti, per cui tutto è dato, è quantità. E quello, spesso bollato come stucchevole e sentimentale, degli umanisti, quelli che credono, come dice Wieseltier, nell'”irriducibilità dell’essere umano alla sua sola natura animale”,  nell’elevazione della persona attraverso lo studio e la conoscenza e nell’inadeguatezza intrinseca delle scienze naturali a spiegare ogni aspetto dell’esistenza umana.

Sono concetti che hanno permeato per secoli la cultura occidentale,  e che hanno reso possibile il progresso, e lo stesso pensiero scientifico che adesso ne vorrebbe allegramente fare a meno. Dire oggi che non siamo fatti solo di circuiti neuronali, per una parte dell’intellighentia moderna è essere insopportabilmente retrò. Perfino di cose come la bontà, la compassione, l’amicizia, si cerca una spiegazione “meccanicistica”.

Uno dei passaggi chiave del pezzo, secondo me, è questo:

Meanwhile the discussion of culture is being steadily absorbed into the discussion of business. There are “metrics” for phenomena that cannot be metrically measured. Numerical values are assigned to things that cannot be captured by numbers. Economic concepts go rampaging through noneconomic realms: Economists are our experts on happiness!“.

Già, gli economisti sono diventati i nostri esperti sulla felicità, i tecnici sono diventati i punti di riferimento per qualsiasi cosa, dal riparare l’automobile alla gestione di un divorzio. Anche il linguaggio comune riflette questo mutamento; la stessa parola “gestione” era un tempo usata solo per oggetti e cose, e situazioni impersonali. Nell’istruzione, sono stati introdotti i “crediti”, e così via.

Uno dei campi in cui è più evidente questo “scontro di civiltà”, fra scuole di pensiero è quello della progettazione delle città intelligenti, le cosiddette Smart City. Un ambito di importanza, peraltro fondamentale; e non solo perché, per la prima volta nella storia, più della metà della popolazione della Terra vive nei centri urbani.

Anche, e in larga parte, perché il modo in cui vengono costruite, i concetti che ne informano la progettazione,  determinano non solo la routine quotidiana, ma anche la forma mentis degli abitanti.

Disegnare un centro urbano è dunque un atto “politico” in senso ampio, e non a caso un tempo era appannaggio soprattutto degli architetti, professionisti che si possono a buon diritto annoverare fra i cultori delle cosiddette “arti liberali”.

Ma quando si passa dalla città tradizionale alla smart city, le cose sembrano cambiare, come lamenta Rem Koolhas, architetto olandese interpellato sul tema dalla Commissione Europea.  Sono le grandi corporation e gli esperti di dati, a comandare, e questo finisce per cambiare la nozione stessa di città e i valori a cui si ispira. Lungi dal rappresentare lo stare insieme in armonia di una comunità, la selling proposition delle smart city si basa su tre parole chiave: comfort sicurezza e sostenibilità. Tutte cose che possono rendere una città “abitabile”, ma non certo vivibile.

È chiaro che ci sono molte cose positive, nell’idea di smart city, ma è urgente depurarla dalla retorica degli esperti di marketing e ridarla in mano agli architetti, e ai tanto bistrattati umanisti come loro: ovvero coloro che hanno, o dovrebbero avere, davvero a cuore la felicità degli abitanti, e non solo la loro “sicurezza”.

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