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Some thoughts on the present and future of journalism, for the Catholic University of Milan

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I was pleased and honoured to be interviewed (together with other colleagues: Mario Tedeschini-Lalli, Jacopo Barigazzi, Andrea Iannuzzi, Carola Frediani and Marco Bardazzi) by the students of the School of Journalism of the Catholic University of Milan, to discuss some ideas about the present and future of journalism.

The original text can be found here.

I also copied and pasted the Q&A below.

Italian only, sorry, but as soon as I have some time I’ll try to translate it. Can’t make any promise, though ;) (If, for some strange reason, you’re really interested, I suggest using Google Translate in the meantime)

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Come si sta evolvendo la professione del giornalista? Quali scenari si aprono nell’informazione del futuro?

Lo abbiamo chiesto al giornalista Federico Guerrini (@fede_guerrini), che da anni scrive di tecnologia e startup per alcune grandi testati nazionali e internazionali. Fellow del Reuters Institute for the Study of Journalism di Oxford, per il quale nel 2013 ha svolto una ricerca su giornalismo e content curation, ha scritto diversi libri dedicati all’uso consapevole dei social media come Tutto su Facebook, Vivere Social e Facebook Reloaded. La privacy online, l’identità digitale e la realtà aumentata sono tra gli argomenti che più lo affascinano, e sui quali tiene anche seminari e corsi di formazione.

Qual è il futuro prossimo della professione del giornalista?

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita di due drammatiche realtà. Da un lato, la riduzione di giornalisti che possono esercitare la loro professione a tempo pieno, con contratto a tempo indeterminato; dall’altro, il moltiplicarsi di freelance, collaboratori esterni, i quali ormai scrivono la maggior parte dei contenuti pubblicati, ma che si trovano in condizioni economicamente molto più disagiate dei loro predecessori. La professione giornalistica ha perso molto del prestigio che aveva prima, anche perché la gente si rende conto che è meno tutelata e ha confini molto meno definiti rispetto al passato. Le stesse aziende sanno che hanno ormai una posizione di forza rispetto ai media, al contrario di ciò che avveniva un tempo: sia per la condizione economica sfavorevole, sia perché ormai le grandi imprese possono rivolgersi direttamente al pubblico tramite i social, eludendo la tradizionale funzione di gatekeeping ricoperta dal giornalista. Molte grandi aziende hanno creato loro stessi prodotti pseudo-giornalistici, spesso realizzati da professionisti che sono passati ‘dall’altra parte della barricata’ per godere di trattamenti economici molto migliori.

Personalmente, credo che la sfida di noi freelance sia quella di tener fede a principi etici e morali, pur muovendoci in questo ambiente divenuto così pragmatico e competitivo. Per emergere bisogna cercare di specializzarsi, creare il proprio brand, una sorta di mini-redazione a sé stante, utilizzando al massimo i social media per avere contatti, risorse, accessi alle fonti e per amplificare e diffondere i propri contenuti. “Freelance? Per emergere bisogna specializzarsi, creare il proprio brand, una sorta di mini-redazione a sé stante”Ormai il campo d’azione giornalistica è diventato internazionale: è essenziale conoscere più lingue, avere contatti all’estero, confrontarsi con i colleghi di tutto il mondo e cercare di inserirsi sui mercati di altri Paesi dove si trovano condizioni di lavoro più favorevoli. Con l’imporsi del digitale, le notizie sono intese ancora di più come prodotti, merci: per questo è un vantaggio da una parte saperle vendere fuori, e dall’altra trovare da altre parti contenuti inediti da lanciare in Italia. Esistono software in grado di scrivere articoli automatici, partendo da numeri e informazioni, che con il tempo si affineranno sempre di più. Per essere ancora considerato, il giornalista deve reinventarsi, mettere in luce il suo differenziale e cercare di farsi strada da solo.

Come la tecnologia influenzerà i contenuti e le modalità di lavoro nelle redazioni?

Il digitale ha velocizzato tutto. Le notizie possono essere aggiornate in qualsiasi momento con una mail o un sms, attraverso piattaforme come Scribble; si tratta di strumenti inizialmente nati con lo sviluppo del citizen reporting, che permetteva a tutti una condivisione rapida di foto e video relativi ad eventi a cui si capitava di assistere. Adesso questi metodi sono stati raccolti dal giornalismo ufficiale, per trasmettere in diretta ciò che accade: un esempio riuscito è la WebCar della Stampa. La tecnologia aiuta i giornalisti a fluidificare il lavoro e a diffondere il più possibile i contenuti; ha permesso la nascita di nuovi interessantissimi esperimenti di giornalismo, come il long-form journalism – a partire dall’indimenticabile Snowfall del New York Times, basato su narrazioni lunghe e contenuti multimediali. Qualche tempo fa ho visitato la redazione del Guardian, dove stanno sperimentando questi nuovi modelli: ad esempio nelle inchieste sul datagate, in cui c’erano montagne di dati e informazioni da organizzare e filtrare, rendendo il tutto in un formato accattivante per i lettori. Stanno facendo un lavoro eccezionale.

Alla ricerca del Sacro Graal della sostenibilità: dai paywall al native advertising, quale via per salvare le testate?

Si tratta di una questione incerta e molto delicata. Si salvano in parte le testate specializzate come il Financial Times, che riesce a guadagnare nella vendita dei propri contenuti a pagamento, poiché hanno contenuti spendibili che si rivolgono a un’audience targhettizzata con disponibilità economiche elevate. I paywall, totali o parziali, stanno avendo fortuna soprattutto nelle testate dei piccoli Stati, come ad esempio la Slovacchia e altri Paesi dell’Europa dell’Est; in Italia si parla di diffonderlo da anni, ma per ora non ha preso piede. Purtroppo, la crisi delle testate online è difficilmente risolvibile. Accusare Google di arricchirsi sul lavoro dei giornalisti e imporgli tasse per i contenuti, per me è inutile e controproducente. Le testate traggono benefici dal motore di ricerca in termini di traffico e visibilità e quindi devono sottostare alle sue regole. Si pensi alla chiusura di Google News in Spagna, che di certo ha recato il principale danno ai giornali stessi. L’unica soluzione coerente per combattere Google sarebbe uscire dal suo monopolio e creare un canale di distribuzione autonomo: una scelta difficilissima, che nessuno ha, comprensibilmente, il coraggio di fare.

La vera questione, che investe le sorti stesse del giornalismo di domani, è probabilmente un’altra. Finché si pensa a un modello di guadagno basato sul traffico, i canali informativi saranno inevitabilmente vincolati alla mediazione di altri “Finché si pensa al traffico, i giornali saranno vincolati alla necessità dei click. Altra via è ripensare il giornalismo come servizio culturale” soggetti e alla necessità di attirare click. Quindi video di gattini e foto di supermodelle a go-go, da sempre catalizzatori di visualizzazioni. Altra via è quella di ripensare il giornalismo come un servizio pubblico di valore culturale, che non badi troppo al guadagno immediato, ma che ragioni in una prospettiva più ampia. In questo senso cito di nuovo il Guardian come modello da seguire: giornalismo di qualità, progetti innovativi nel lungo periodo e la volontà di pensare in grande, con l’apertura delle versioni in Australia e negli Stati Uniti. Newsweek è un altro buon esempio; uscito dalla circolazione qualche anno fa, dopo aver cambiato proprietà è ritornato a uscire su carta con un’edizione più pregiata come grafica e qualità dei contenuti, a un costo più elevato. Una mossa senza dubbio coraggiosa. Chiaro è che per tentare esperimenti giornalistici come questi servono capitali e finanziamenti di persone disposte a crederci senza pretendere un ritorno economico immediato. È il caso del leader di Amazon Jeff Bezos, che ha acquistato il Washington Post, o di mecenati come il fondatore di eBay Pierre Omidyar con First Look Media, o di altre belle iniziative come Pro Publica. Questo succede in America. Da noi le cose vanno peggio; si veda l’esempio di Pagina99, un ottimo giornale senza soldi, a un passo dalla chiusura.

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