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Il giornalismo è un prodotto: ok, ma quale?

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Si sente dire da più parti che gli editori devono capire che, nell’era del giornalismo digitale, i media online devono progettare i propri contenuti in maniera diversa, adattando il prodotto al mezzo su cui transita.

“La maggior parte – mi diceva l’altro giorno un’intervistato che vive a Londra, gira il mondo e ha le antenne accese anche se non opera direttamente all’interno dei media – continua a riproporre online le stesse cose, nello stesso modo, in cui le proponeva su carta, ma questo non ha senso”.

Il “contenuto” è un prodotto come un altro, è questo in sostanza il ragionamento, bisogna capire come impacchettarlo e venderlo al meglio. Sul piano formale, non fa una grinza.

Ma è proprio così? Davvero il giornalismo è un prodotto assimilabile a tutti gli altri? Se fosse così semplice, allora per vendere più pagine o contenuti basterebbe riempirle di gattini e immagini soft-porn, che sono quelle di cui c’è più richiesta, per aver risolto il problema (ooops, dite che ci hanno già pensato?).  Ma per fortuna, non tutti fanno così. Perché sarebbe appunto in contrasto con l’ethos del giornalismo. Ma allora in cosa consiste ‘sto  benedetto ethos? Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe prima di tutto rispondere a un’altra: a cosa serve il giornalismo?

Dettare l’agenda/influenzare l’opinione pubblica:
è una delle funzioni a cui si pensa quando si guardano film sul Watergate, il Datagate o si leggono notizie di politica e società. Funzione che rimane, ma in maniera sempre più residuale. Non è che i giornali non facciano più inchieste o campagne stampa: è che gli effetti concreti delle stesse appaiono sempre minori. Il Watergate ha fatto dimettere un presidente. I

ll Datagate, pur benemerito nel suo risvegliare le coscienze e pur avendo degli effetti di ampio respiro sui rapporti fra Stati e forse sulla gestione stessa dell’infrastruttura di Internet, non ha modificato di una virgola il comportamento dell'”imputato” principale delle rivelazioni, l’intelligence americana. LuxLeaks, ha rivelato una trama di evasioni, collusioni, connivenze fra aziende, governi con al centro l’attuale presidente della Commissione Europea.

Che è ancora al suo posto. L’#ubergate ha rivelato l’idea, forse una boutade, ma comunque grave, di ingaggiare dei segugi per gettare fango su dei giornalisti che criticavano l’azienda Uber. È successo qualcosa? Tanto rumore, ma l’autore di tali affermazioni era ed è rimasto vice-presidente.

L’indebolimento della capacità di plasmare la società del giornalismo è dovuto anche alla speculare capacità di aziende e politici di diffondere in maniera autonoma la propria voce. Chi legge non sa più a chi credere. E, dato che la comunicazione di aziende e governi è gestita di solito proprio da ex giornalisti, sovente è fatta in maniera tale da “apparire” giornalistica, anche quando è schiettamente auto-promozionale.

Non è che inchieste e scoop non servano più a niente, ma bisogna trovare nuovi modi per far passare il messaggio. Un esempio interessante può essere quello delle “10 domande” di Repubblica: una comunicazione ripetuta in maniera ossessiva e permanente, un argine contro il culto effimero e della memoria a brevissimo termine, che domina ormai le nostre vite. Altre cose interessanti possono venire dal data journalism, che permette di scoprire a colpo d’occhio correlazioni nascoste fra fenomeni, in maniera comprensibile anche al lettore più “scemo”.

Giornalismo di servizio
Dare informazioni di utilità generale. C’è l’alluvione? Leggo sul giornale quali sono le zone più a rischio. C’è lo sciopero? Vado a vedere modalità e servizi garantiti. Queste sono cose di cui ci sarà sempre richiesta. Il problema, è che non per forza serviranno dei giornalisti professionisti per diffonderle. Da una parte ci sono i cosiddetti “cittadini giornalisti” che inondano le rete di contenuti multimediali, magari di qualità inferiore, ma tempestivi e “sul pezzo” riguardo fenomeni che accadono in diretta. Dall’altro, la richiesta di dati e informazioni potrà essere in larga parte automatizzata, affidandosi a un software che “pesca” dalla rete le informazioni più rilevanti.

Creare un senso di comunità
Questo vale soprattutto per i giornali locali. Tutto sommato penso che sia una delle funzioni meno a rischio scomparsa, specie nei piccoli paesi, dove la gente ama il contatto personale, ti racconta le cose solo se ti conosce e solo chi ci vive è in grado di interpretare quanto accade. E poi la vita è più lenta, è c’è ancora tempo di commentare al bar gli ultimi pettegolezzi letti sul quotidiano provinciale.  Il problema è per quei giornali locali che avevano anche ambizioni più ampie, come si evince anche dalla vicenda del Secolo XIX di Genova, in cui le pagine nazionali e di esteri verranno probabilmente esternalizzate in Piemonte dopo l’acquisizione da parte de La Stampa. Il locale avrà senso solo se iper-specializzato. Gradi intermedi non saranno ammessi (forse, le mie sono solo riflessioni personali, non Vangelo).

Aprire una finestra sul mondo
Giornalismo di Esteri, fanno notare alcuni, se ne fa sempre meno. I corrispondenti costano, le redazioni tagliano o ricorrono alla Rete per re-impacchettare notizie scritte da altri.Qui io vedo un grosso problema: già oggi per i lettori più avveduti non ha senso la leggere la versione italiana se possono leggere online, un giorno prima, la versione originale sul New York Times. Ma per ora vale solo per chi parla e conosce bene l’inglese. Cosa succederà – perché succederà – quando sarà possibile tradurre bene e velocemente il Web con un clic? CI si accontenterà ancora di prodotti di seconda mano?

In più, in molte nazioni, la gente appare troppo avvitata sul proprio ombelico per interessarsi davvero a quello che accade in giro. Gli italiani, assieme agli Usa, secondo un recente sondaggio sono i più ignoranti d’Europa, a questo riguardo, ma anche gli Stati Uniti non stanno messi molto bene.  Non mancano i segnali in controtendenza, bravi colleghi che provano a colmare questa lacuna, come i freelance di Radio Bullets, che provano a rilanciare questo settore tramite lo strumento dei podcast. Troveranno ascoltatori?

Di cose a cui serve il giornalismo, ce ne sono sicuramente altre, ma queste sono quelle che mi vengono in mente al momento. Dunque, la questione è: come fare a conservare e rilanciare tali pilastri fondanti, molti dei quali sono al momento in crisi, sfruttando le peculiarità del digitale per renderli di nuovo appetibili? Come conservare l’identità della professione, adattandola sì al mezzo, ma senza trasformare tutto in gattini?

A voi la parola.

 

 

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