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Perché il caso Uber è importante – ed è solo un assaggio di quello che ci aspetta

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Probabilmente avete seguito la vicenda: uno dei maggiori manager di Uber, il vice presidente Emil Michael, è stato colto in flagrante mentre, a una cena, suggeriva di “spendere un milione di dollari” per ingaggiare una squadra di investigatori, giornalisti e ricercatori online in modo da gettare fango su alcuni giornalisti “colpevoli” di aver criticato l’azienda.

Grande scandalo, scuse che molti hanno giudicato di facciata, ma il responsabile, che aveva anche aggiunto “nessuno saprebbe che (dietro tale campagna di delegittimazione n.d.r.) ci siamo dietro noi” – è ancora al suo posto.

La stessa azienda è accusata, fra l’altro, di aver consultato senza ragioni plausibili, il logo di viaggio di alcuni giornalisti che utilizzavano il servizio, per tenere traccia dei loro spostamenti.

Bene hanno fatto i giornalisti a scandalizzarsi, e può darsi che il responsabile alla fine paghi. Ma il problema è un altro. È che Michael ha ragione: una qualsiasi delle grandi multinazionali che ormai dominano il nostro mondo online (e presto anche offline) potrebbe mettere in atto una campagna di questo genere e avere buone probabilità di non essere beccata. Avrebbe il denaro, le risorse, l’influenza per mettere a tacere i critici con metodi simili. Soprattutto, avrebbe le informazioni.  Qualsiasi azienda, da Google a Facebook ad Amazon, è in grado in quattro e quattr’otto, di mettere su un dossier particolareggiato su un reporter, un’attivista o un oppositore politico.

Numero di carta di credito, di cellulare, indirizzo di residenza e spedizione, opinioni, rapporti sentimentali: non c’è dettaglio che la stragrande maggioranza di noi non abbia consegnato – volontariamente – a tali colossi. Certo si può contare sulla buona fede, sulle normative sulla privacy, su un minimo di decenza, ma il problema rimane: chi ci assicura che tali informazioni non vengano usate contro di noi? E saremmo in grado di capire se ne viene fatto un uso scorretto? Chi è in grado di controllare quello che avviene negli uffici di aziende lontane migliaia di chilometri?

Si è parlato molto della sorveglianza di Stato, rivelata da Snowden e da altri; meno si è detto della rete spionistica delle grandi corporation. Come se fosse meno importante o preoccupante.

Il caso Uber dimostra che così non è. E la cosa è tanto più preoccupante se si tiene conto che, come si evince da una lettera anonima arrivata a un giornalista del Times, non è che i tecnocrati della Silicon Valley, o perlomeno una parte di essi, abbiano una visione molto benevola dei giornalisti. Il coltello in mano – viste anche le condizioni della categoria, sempre più screditata, sottopagata e in crisi di identità – ce l’hanno loro. La questione è quanto ancora aspetteranno prima di avvalersene.

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